Beat it! (or treat it?)

Scultura di Alberto Festi (legno di larice e testa di martello 30x13x3 cm)

(English version below)

In questo lavoro Alberto Festi, continuando a esplorare le possibilità che ha il legno di perdere e  prendere forma, affronta il complesso rapporto tra utilità e bellezza.
Può un oggetto privato del suo scopo diventare proprio per questo più bello?

In questo caso si tratta di un utensile, un arnese che nasce per adempiere ad una precisa funzione (essere impugnato per battere dei chiodi) che viene non solo privato della sua utilità ma, attraverso un gesto squisitamente autoreferenziale, rivolge quell’azione impossibile proprio verso se stesso.
Quella che qui si realizza è una sintesi di forza e debolezza, quest’ultima espressa anche e soprattutto dalla forma presa dal manico del martello che non a caso ha chiari riferimenti ad una virilità mancata.
In questo senso è qui allora il maschilismo ad essere irriso, nell’evocazione di una potenza che si vorrebbe tale ma si ripiega inutilmente su se stessa.

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Alberto Festi, continuing his journey  to explore the possibilities of wood to lose and take shape, deals here with the complex relationships between beauty and usefulness.
Can an object deprived of its purpose become – precisely because of this – even more beautiful ?

In this case, Alberto focus on a tool created to fulfil a specific function (to be gripped to pound nails), that is here not only deprived of its usefulness but, through a self-referential gesture, turns that impossible action towards itself.
What is achieved here is a synthesis of strength and weakness, the latter expressed also and above all by the form taken by the handle of the hammer which, not by chance, has clear references to a lack of manhood.
in a way, in this artwork, machismo is mocked, evoking a power that pretend to be real, but turns out to be uselessly folded back onto itself.

 

[Antonella Fava]

 

 

 

Escape

“Escape” – Legno di larice e tasti di computer (125 x 15 x 3,5 cm) – Opera di Alberto Festi

La chiave di lettura per quest’opera incredibile ce la dà l’artista stesso, che la definisce una sorta di “poesia tridimensionale”, una forma poetica intermedia tra quella che si esprime attraverso la scultura e quella che usa le parole e le loro sonorità per rivelarsi.
È un’opera a mio avviso incredibile perché di una semplicità e di un’evidenza estrema, quella semplicità ed evidenza che coincidono con la bellezza proprio in virtù del fatto che sono semplici ed evidenti.
È poesia nel senso più stretto del termine: è lirica perché per manifestarsi usa la musica insita nella parola articolata.

“Fuggi” è innanzitutto una parola melodica e dall’eleganza un po’ desueta, con quelle vocali chiuse e le consonanti non occlusive che le conferiscono un suono sussurrato e continuo.

“Fuggi” è anche una forma imperativa, un comando o un consiglio, che però genera un dubbio relativo all’azione da compiersi, vale a dire se sia essa da eseguire con tutto il corpo oppure solo con i polpastrelli, scappando via oppure digitandola sui tasti come se si trattasse di un software da cui si vuole uscire, di fatto stando fermi.

“Fuggi” diventa infine una forma tridimensionale, attraverso i volumi di quegli oggetti in plastica che premendo si possono far affondare un po’ di più nel legno, come se la via di fuga potesse essere proprio lì nella profondità aggiunta dal movimento.

O dall’immobilità rispetto alla quale quel movimento si definisce.

LECTA MANENT

Il gioco tra realtà e finzione è il cuore di questa nuova opera di Alberto Festi.
Non la si vede subito la verità, quando ci si trova davanti a questa tastiera per computer. Essa è nascosta in una sequenza di lettere che in genere sono prive di senso, anche se il loro scopo è proprio quello di crearne uno.
Non la si vede subito la verità, eppure la rivelazione è potente, quando si capisce che quello che credevamo essere uno strumento per scrivere è in realtà un supporto contenente un significato, l’unico possibile tra le infinite combinazioni che si sarebbero potute immaginare.

Plastica al posto del marmo, pezzi di ricambio anziché lavoro di scalpello, Alberto reinventa qui l’incisione e lo fa chiedendo ancora una volta l’intervento dell’osservatore.
Il testo non si esaurisce infatti nella sua mera esposizione, ma diventa invito all’azione: quei tasti chiedono di essere digitati, anche se solo per ricomporre altrove quell’unica frase che ci interpella di fronte alla realtà di una cosa non vera.

“Era vera l’illusione che ci teneva”. L’affermazione ha l’intensità di un’epifania, ma ci lascia sull’orlo di un precipizio quando ci rendiamo conto che la verità di un’illusione corrisponde alla sua fine.

Rescue – Racconto in 5 episodi per una scultura

1º Episodio: Puntini

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Ero convinta di aver fatto un percorso che avesse un senso. Nel senso di direzione, non di significato.

L’illusione del tempo genera per sua natura questo inganno: si crede di aver camminato passo dopo passo disegnando una linea che inizia da A e arriva a B e poi a C, a D e via dicendo, finché non si muore.
E in genere si è anche bravi a spiegarsi il come, il perché e il quando si sia fatta una scelta di fronte ad un immaginario bivio, prendendo un cammino al posto di un altro. Come se queste diverse strade esistessero davvero in quanto possibilità, come se esistessero tanti ipotetici cammini tracciati e tracciabili.
Niente di più falso.
Le tracce le riconosciamo solo dopo che sono state lasciate. Sull’asfalto, nella melma, nella materia molle dei nostri ricordi, nel liquido interstiziale delle nostre cellule come tossine da eliminare e nell’aria stessa che respiriamo in quanto scie di odori che si percepiscono a volte senza che ce ne rendiamo nemmeno conto.
Tracce. Le tracce esistono solo dopo che tutto è successo.
Ero convinta che mettere in fila gli istanti passati potesse servire a capire cosa sarebbe accaduto dopo. L’idea di disegnare un percorso crea l’illusione che questo possa continuare, forse all’infinito.
O che comunque ci sia un progetto ultimo che metta insieme tutti i puntini costruendo poi un’opera compiuta, magari anche bella.

Niente di più falso.
Il dopo a un certo punto non c’è più. Un passo, uno qualunque, può essere l’ultimo.

Quella sera di casa io non volevo proprio uscire. 

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2º Episodio: Memorie

image from www.flickr.com

Tracce.
È incredibile quanto i ricordi possano essere ingannevoli. A volte a fissarsi nella memoria sono solo sogni, premonizioni o ricordi altrui, altre volte invece sono i nostri stessi ricordi a scomparire, volontariamente o accidentalmente cancellati.
Il vero confonde allora i suoi tratti, apparentemente così definiti, nel magma del verosimile.
Il fatto è che non c’è niente di più volatile di una traccia, anche quelle che ci sembrano indelebili alla fine svaniscono.
Fotografie, parole scritte, byte archiviati nei dischi, lettere nascoste nei libri: con l’intento di fermare il tempo ho sempre cercato di conservarne il più possibile di tracce. Solo per accorgermi però che, lungi dall’essere prove certe, esse restano -quando restano- sempre solo indizi, segni interpretabili di ciò che è stato fatto.

Quella sera era buio più del solito, questo è un fatto.
Quella sera le persone si confondevano con le loro ombre fitte e dense, anche questo è un fatto.
E c’era un vento freddo fortissimo. Questo è un fatto molto strano per una sera di mezza estate sulla passeggiata del lungomare di Nizza.
Quella sera alla fine sono uscita di casa anch’io, assieme a tutti gli altri.

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3º Episodio: Samskara

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I fatti in genere lasciano tracce.
Samskara nella filosofia indù sono le impressioni del mondo esterno sull’io, quelle che forgiano giorno dopo giorno, vita dopo vita la personalità di un essere umano.
Possono essere paragonate a delle incisioni leggere che la natura pratica passando attraverso di noi e scolpendo così la nostra essenza in modo sempre più preciso.
E quando lo scalpello passa sempre nello stesso punto scava a fondo anche se è lieve.
Incisioni leggere.
Ci sono fatti di cui persiste solo l’odore e che si può indovinare essere stati sgradevoli solo perché quella traccia lo è.
Ci sono fatti di cui non resta che l’eco e diventa quindi impossibile individuarne la vera sorgente sonora.
.

C’era musica quella sera per strada. La musica nasce dalle oscillazioni, ha origine nei solchi e ne lascia per sua natura, le ombre invece no, anche se sono fitte.
C’erano dei lampi di luce quella sera in cielo e di essi è rimasta per qualche istante l’impressione sulla retina di quelle che sembravano solo ombre spesse ammassate a guardare.
Di colpo il silenzio. È incredibile come il vento forte e freddissimo riesca a portare lontano i rumori.
Non ricordo le grida, vedo solo le bocche spalancate, non ho sentito gli spari, riconosco solo del fumo bianco sopra il mio capo.
Vibrazioni, moto ondoso, fluire di stormi neri che rotolano sui sassi bianchi della spiaggia. Nel ricordo tutto è accaduto in silenzio. Il rumore è tornato solo nei miei passi che finalmente trovavano la via di casa.

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4º Episodio: Exit

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C’è un pensiero che mi accompagna sin da bambina ed è la certezza che esista sempre una via di uscita.
Ero una ragazzina delle scuole medie quando per la prima volta -non ricordo di fronte a quale difficoltà, ma dovevo viverla come insormontabile- mi sono detta che non importava quanto grave fosse il problema, quanto forte il dolore, perché tanto un’uscita di sicurezza ci sarebbe sempre stata.
In realtà non ne sono più così sicura, in effetti a volte non c’è. Oppure semplicemente non la vedi.
C’è che non sempre l’uscita di sicurezza è segnalata con luci verdi ben visibili, a volte è nascosta dietro un’intuizione, un ricordo, una presenza lontana, un pensiero che guida il tuo passo.
Un passo, uno qualunque, può essere quello che ti salva.
La mano che non avevi mai smesso di cercare può essere quella che ti mette al sicuro.

Molti quella sera non si sono salvati. Molte di quelle ombre sono diventate carne viva le cui tracce sono affiorate a lungo dall’asfalto rossiccio. Il sole battente su quella pavimentazione porosa ha continuato per giorni a liquefarle in tante minuscole gocce rosse che ridisegnavano quotidianamente, nelle ore più calde, la forma di parte di quello che qualche giorno prima era ancora un corpo o le impronte degli pneumatici che gli erano passati sopra.
Vapori volatili che volevano solo svanire, ma che sono rimasti lì ancora un po’, ad aspettare inutilmente di fissarsi da qualche parte.

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5º Episodio: Epilogo

Le tracce restano scolpite nella carne anche se si cancellano da tutto il resto.
La via d’uscita non c’è sempre, ma se non hai mai smesso di cercare la tua, alla fine la trovi comunque.
Se la trovi tutto trova il suo senso. Nel senso di significato non di direzione.
Perché non c’è percorso, è già tutto lì e i puntini sono per sempre uno sopra l’altro.

Ci sono voluti giorni per dare un nome a tutte le vittime, di alcune delle quali era rimasta solo qualche traccia. Ce ne sono voluti ancora un po’ anche per trovare quello di questa scultura che ora ce l’ha.

RESCUE
Legno di larice (113x28x6 cm)

Dove c’è salvezza non c’è paura.

Persona

“Persona” – legno di acero (60 x 30 x 10 cm) – Scultura di Alberto Festi

Persona. Mi piace il titolo che l’artista ha scelto per quest’opera.
Persona, dal latino: per, attraverso e sonare, risuonare.
Persona era infatti la maschera indossata nell’antichità dagli attori, che oltre a coprirne il volto e ad esagerarne i tratti funzionava da amplificatore per la loro voce. Il termine con cui noi oggi designamo gli individui significa maschera.

E una maschera è in effetti questa forma cava che riproduce il viso dell’artista in negativo e sembra invitare l’osservatore ad appoggiarci il proprio di volto per prenderne così le sembianze dall’interno.
Anche le prese laterali delle mani, che afferrano il legno come fosse uno specchio,  invitano a ritrovarsi in qualche modo nella sua immagine.

Personne in francese significa anche nessuno. E infatti non si può vedere proprio nessuno attraverso una maschera con gli occhi chiusi.

Anche se il dentro sembra il fuori, in quel gioco mimetico che simula lo sporgere dei tratti fisiognomici che invece sprofondano nel vuoto, la verità è che il dentro resta dentro e il fuori inaccessibile.

È il fuori che è inaccessibile.

Interviste Henjam in occasione della mostra al Castello del Catajo

Ci sono ancora alcuni giorni per visitare la mostra al castello del Catajo, che si concluderà il prossimo 11 maggio.
Non mancate l’occasione di vedere le opere Henjam in questa splendida cornice.
Se volete sapere cosa hanno detto la critica e gli artisti stessi di questa esposizione, qui di seguito trovate la presentazione delle opere di Alberto Festi e Matteo Tonelli da parte di Beunida Melissa Shani e le interviste rilasciate dagli artisti ai media locali e nazionali.

 

 

Matteo Tonelli negli studi di 7 Gold racconta l’esperienza Henjam e cosa significhi la teorizzazione di un’arte che prevede il lavorare assieme su una stessa opera.

 

 

Alberto Festi e Matteo Tonelli sono stati ospitati anche da Radio Venezia per presentare la loro esposizione al Castello del Catajo